Si fa presto a dire anarchico...
Affinità e divergenze tra il pensiero anarchico e quello libertario, anche detto "anarco-capitalismo".
Anarchico, libertario, socialista, comunista, liberale, liberista...
Usiamo, o vediamo usare, continuamente queste parole, spesso intorno a litigi furiosi, che avvengono sui giornali, i forum, i social, cioè negli spazi in cui oggi si sviluppa il discorso pubblico; il più delle volte sono usate in maniera impropria.
Vediamo, quindi, prima di tutto di fare un po' di chiarezza, per cui riprendiamo tutto il discorso dalle sue origini e proviamo a rimettere ogni cosa al suo posto.
Per poter uscire dal feudalesimo l'Europa usa le masse, le quali poi finiscono inevitabilmente per sviluppare un proprio pensiero politico; il continente è scosso, durante tutto il 1700, da riflessioni non solo sul ruolo dello stato e la funzione delle monarchie ma anche sul ruolo delle masse, dei lavoratori e sull'organizzazione sociale in generale.
Mentre nell'alveo del pensiero conservatore dell'epoca nasce Adam Smith (nel 1723) al quale dobbiamo l'introduzione di concetti come la divisione del lavoro e il perfezionamento di idee come quella di stato minimo e di scuola pubblica (ritorneremo più avanti su questi aspetti della questione), nell'alveo del pensiero progressista arrivano persone come William Godwin (1765), definito come uno tra i primissimi "politici libertari" della storia, che muovono la loro critica allo stato da un punto di vista più strettamente sociale e filosofico; proprio Godwin è tra i primissimi in Europa a porre sul tavolo due concetti che rappresenteranno il fondamento della cultura "libertaria" per tutti i secoli a venire e cioè:
"ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo"
"nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri"
Entrambi i quali sono esposti nell'antologia "L'eutanasia dello stato" (che trovate qui https://eleuthera.it/files/materiali/Godwin_Eutanasia_dello_stato.pdf)
Erano gli anni in cui la parola "libertario" era usata sostanzialmente come sinonimo di anarchico, oggi non è più così, ma ci torneremo più avanti.
Ora, tornando ad Adam Smith, nel postulare la divisione del lavoro Smith non separa solo il lavoro dal capitale, ma pone le basi concettuali del lavoro specialistico, immagina cioè un lavoratore completamente avulso dal prodotto finale, il quale si occuperà solo di un singolo aspetto di tutti i vari passaggi che poi, realizzati in successione, conducono al prodotto finale.
In questo modo Adam Smith pone le basi per aumentare la produttività del lavoro, ma finisce col produrre anche una serie di riflessioni che andranno ad avere poi un impatto su tutta l'organizzazione sociale nel suo complesso. Smith, infatti, si rende conto che il lavoro specialistico, nella sua monotonia, rappresenta uno svilimento della persona umana, che ne verrebbe quindi abbruttita, motivo per il quale postula la necessità di istituire una forma di istruzione pubblica, finanziata dallo stato e sostenuta dalla tassazione.
Smith finisce quindi col separare ben di più che lavoro e capitale, separa lo Stato dalla sua funzione economica, immaginando uno Stato il cui solo scopo è ridotto alla gestione dell'organizzazione sociale (istruzione, sicurezza, etc), mentre tutte quelle che erano le funzioni economiche (salvo pochissime eccezioni) finiscono con l'autoregolarsi in maniera naturale.
Mentre il pensiero di destra spoglia lo stato dalle sue funzioni economiche (con Smith), il pensiero di sinistra lo spoglia delle sue funzioni politiche e sociali (con Godwin).
Da tutto questo emergeranno, nei secoli successivi, gli stati nazione come li conosciamo oggi; sono proprio queste riflessioni che, diffondendosi tanto a destra quanto a sinistra, finiscono col porre le basi filosofiche per il cambiamento radicale dell'organizzazione sociale, politica ed economica europea, fino ad allora ancora sostanzialmente feudale.
Possiamo quindi porre Smith e Godwin come i due opposti intorno a cui si sviluppa il pensiero politico europeo, due approcci molto diversi che ancora oggi rappresentano i due antipodi del pensiero di destra e di sinistra contemporaneo; laddove i primi, infatti, sviluppano le loro riflessioni intorno al rapporto tra stato ed economia, i secondi lo fanno intorno al rapporto tra stato e organizzazione sociale.
Alla fine del 1700 però succede anche un'altra cosa interessante: la politica diventa un fenomeno di massa.
La riflessione e il discorso politico (ed economico) esce dai salotti buoni dell'aristocrazia e dell'alta borghesia, e irrompe nelle strade e nelle piazze delle città, dei centri urbani.
Nel 1818 nasce in Germania Karl Marx, col quale per la prima volta si oppone una visione strettamente di sinistra al pensiero economico di destra. Tra le masse una riflessione sul concetto di proprietà e sul modo attraverso cui la proprietà si era tramandata attraverso le varie generazioni, era già radicata. Del resto, nel momento in cui si contestava la proprietà feudale non si poteva evitare che molti portassero il concetto alle estreme conseguenze, arrivando a contestare la proprietà a tutto tondo.
Tuttavia il primo a dare una struttura formale a tali riflessioni, a scriverne cioè scientificamente, fu Marx.
Con Marx si inizia a distinguere quindi tra socialisti e comunisti, mentre i socialisti sono più orientati alle questioni strettamente politiche e di governo, i comunisti integrano nella loro prospettiva la dimensione economica. Non che il pensiero socialista non contemplasse forme di proprietà collettiva, ma col marxismo tutto questo assume una dimensione più radicale (e rivoluzionaria), oltre che assumere un problema (per la prima volta nella storia) di "classe sociale", per cui il "comunismo" diventa in un certo senso l'ala radicale del pensiero socialista.
Da questo momento in poi sia il pensiero di sinistra che quello di destra evolveranno in una miriade di correnti differenti, via via sempre più radicali.
A sinistra i comunisti produrranno, ad esempio, il maoismo, lo stalinismo, ma anche forme come il socialismo bolivariano (in America Latina) o il castrismo che avranno tutte caratteristiche peculiari.
A destra il pensiero evolverà anche in questo caso in una molteplicità di realtà differenti, da quelle più moderate che riconoscono un ruolo forte allo stato nell'organizzazione sociale (la cosiddetta social-democrazia) a quelle più radicali che ambiscono a una società regolata soltanto dalle logiche di mercato (ciò che oggi chiamiamo pensiero liberista, o neo-liberista).
In tutto questo gli anarchici o libertari come si collocano?
La prospettiva anarchica contesta essenzialmente l'organizzazione gerarchica nella società: nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri.
Siamo fuori da una dimensione strettamente politico-economica, e ricadiamo nell'ambito di una riflessione filosofica. Il presupposto anarchico, infatti, può applicarsi a qualsiasi forma di organizzazione (sia sociale che economica) e per questo ha dato a sua volta vita a diverse correnti, a seconda dell'ambito in cui il rifiuto dell'organizzazione gerarchica veniva applicato; in Russia, ad esempio, arriva Tolstoj col suo anarchismo cristiano, nell'ambito sindacale si sviluppa l'anarco-sindacalismo, nell'universo femminista nasce l'anarco-femminismo. Insomma, in qualunque settore andiamo a guardare il rifiuto per l'organizzazione gerarchica ha dato vita a una nuova corrente anarchica.
A un certo punto però è spuntata fuori una nuova corrente, negli USA, che viene oggi comunemente definita "anarco-capitalista" e che per la prima volta si appropria dichiaratamente del termine "libertario" per sancire una differenza sostanziale dall'anarchismo propriamente detto.
L'anarco-capitalista non si definisce anarchico, si definisce (lui stesso) libertario, proprio a sancire che è lontano da una visione anarchica dell'organizzazione sociale; il libertario, quindi, riconosce il concetto per cui "nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri" solo nell'ambito politico (da qui il rifiuto per lo stato) ma non nell'ambito economico. Ricordiamo, infatti, che il capitalismo non è altro che la divisione tra capitale e lavoro.
Un anarco-capitalista (o libertario) riconosce il dominio dell'uomo sull'uomo e l'organizzazione gerarchica nell'ambito dell'attività economica e nell'organizzazione del lavoro.
Per questo motivo gli anarchici non considerano gli anarco-capitalisti veri anarchici e hanno, di conseguenza, smesso di definirsi "libertari" accettando quindi che le due parole (anarchico e libertario) non potessero più essere considerate sinonimi (come invece era stato per quasi due secoli).
Diritti universali
Abbandoniamo però le speculazioni astratte e proviamo ad immaginare concretamente cosa accadrebbe alla nostra società se la fondassimo intorno al concetto che "nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri".
Questo principio, infatti, non nega che nella società occorrano delle norme che regolino la coesistenza delle persone, ciò che nega è che sia accettabile che solo un gruppo ristretto di individui abbia il potere di scrivere quelle leggi.
Ecco che l'idea anarchica, per trovare applicazione nella realtà, si basa sul presupposto che esistano alcune regole fondamentali che sono riconosciute da tutti come universalmente valide; regole che, in linea di massima, troviamo incarnate, dal 1948, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Nel momento in cui però riconosciamo dei diritti fondamentali dell'essere umano stiamo anche implicitamente riconoscendo che ci sono dei bisogni che ogni essere umano ha il diritto che vengano soddisfatti.
Ad esempio, il diritto alla salute è anche il diritto a nutrirsi in maniera corretta, chi mai sosterrebbe del resto che sia civile lasciare un essere umano morire di fame, o di sete, o di freddo perchè non ha una casa?
Tutti gli individui che compongono la società, quindi, nel momento in cui affermano all'unanimità che ognuno di loro ha il diritto a di essere in salute, di essere libero, di avere una vita dignitosa, ecc., riconoscono implicitamente anche il dovere di ciascuno di loro di cooperare per garantire tutti quei bisogni la cui soddisfazione è fondamentale perchè quei diritti vengano pienamente riconosciuti.
Gli individui, in altre parole, devono cooperare tra loro per garantire che tutti abbiano un'istruzione, l'accesso alle migliori cure, una casa, il cibo per alimentarsi correttamente, l'energia per riscaldarsi e ancora tutta una serie di beni e servizi senza i quali la qualità della vita di una persona non potrebbe definirsi dignitosa.
Siamo quindi di fronte a un'organizzazione sociale minima, in cui una serie di diritti sono universalmente riconosciuti e tutti i cittadini cooperano insieme per garantire che questo sia possibile.
In questo momento abbiamo sia un sistema di regole minimo (riconosciuto da tutti) sia un'economia minima (che garantisce i bisogni fondamentali e alla quale partecipano tutti i cittadini) e la nostra ipotetica società potrebbe vivere benissimo così, senza un governo o autorità centrali, accontentandosi di soddisfare i bisogni fondamentali.
Tuttavia, non tutti i cittadini concorderanno sul modo attraverso cui garantire quei bisogni fondamentali; riuscire a mettere d'accordo 60mln di persone (nel caso dell’Italia) sulle metodologie didattiche da adottare a scuola è probabilmente qualcosa di impossibile, per cui quello che accadrà, inevitabilmente, è che si formeranno diverse correnti di pensiero.
La collettività si dividerà in più correnti di pensiero, le quali avranno tutte diritto di essere rappresentate dal momento che "nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri".
All'interno, quindi, della medesima società assisteremo alla nascita, nei diversi ambiti, di differenti forme di organizzazione, diverse tra le differenti comunità locali o persino all'interno delle medesime comunità; la stessa cosa avverrebbe inevitabilmente anche a livello economico e di organizzazione del lavoro.
Posto che tutti i cittadini dedicherebbero un parte del loro tempo alla collettività, adempiuto questo compito nessuno potrebbe vietare al singolo cittadino di prestare il proprio lavoro ad altri progetti, ricavandone così un surplus rispetto a quel minimo che è comunque garantito a tutti.
Possiamo quindi immaginare che singoli individui sfruttino le proprie competenze per migliorare ulteriormente la propria condizione di vita, per cui gli artigiani, o gli artisti, lavoreranno in proprio e dal proprio lavoro ricaveranno quel di più che la collettività non è in grado di offrire loro; gruppi di lavoratori, con lo stesso proposito, si riuniranno in cooperative dividendosi equamente lavoro e profitti. Altri lavoratori, ancora, decideranno, per i più disparati motivi, di voler vendere il proprio lavoro (similmente a quanto avviene oggi, quindi in un contesto di divisione tra capitale e lavoro) per trarne un salario, preferendo questa soluzione al lavoro in proprio, o in una cooperativa.
L'artigiano che produce mobili, ad esempio, potrebbe diventare così richiesto da non riuscire più a soddisfare la domanda dei clienti da solo, trovandosi quindi nella necessità di assumere lavoratori. Altri artigiani, che invece non avranno avuto uguale successo, decideranno di sfruttare le loro competenze accettando di lavorare come dipendenti per quello che era in precedenza un concorrente.
Vedete come siamo dentro una logica di mercato: sono i singoli cittadini a decretare (coi loro acquisti) quali artigiani hanno successo e quali no, sono i cittadini (cioè il mercato) a decidere se il prezzo di un determinato mobile è adatto oppure no, se vale la pena comprare oppure no, se i mobili prodotti da un certo artigiano hanno anche un valore artistico oppure no.
Detto in altre parole, ed in maniera più chiara, l’anarchismo non è la negazione delle logiche di mercato, che per molti versi sono inevitabili e possono essere considerate persino come naturali.
Se una gelata tardo-primaverile distrugge il 40% del raccolto il prezzo di quel bene, inevitabilmente, aumenterà; non c’è modo di evitare che questo accada, dal momento che la domanda di un bene resta invariata ma l’offerta si contrae il prezzo di quel bene finirà inevitabilmente col salire.
Per quanto sia innegabile che l’anarchismo si fondi su una concezione collettivista della società, si fonda però anche sul rispetto e il riconoscimento dell’individuo.
Nessun pericolo, quindi, che una società anarchica possa degenerare in forme di stalinismo. Il talento, l'abilità e la professionalità dei singoli artigiani (ritornando al nostro esempio di poco fa) è qualcosa di personale, che appartiene ad ognuno di loro, e su cui gli altri cittadini non possono accampare pretese di collettivizzazione; un esempio ancora migliore di questo lo possiamo fare immaginando l'attività di ristorazione.
Organizzazione sociale e lavoro subordinato
Volendo fare un altro esempio: tutti i cittadini che sono capaci di cucinare potrebbero decidere di aprire un ristorante. Nel tempo però alcuni ristoranti falliranno, altri guadagneranno lo stretto indispensabile per non fallire, altri ancora avranno successo e inizieranno ad attirare clienti; certo, sono logiche di mercato, tuttavia chi mai potrebbe negare che tali logiche non sono il risultato di una visione distorta dell’economia, ma sono fatti sostanzialmente naturali e, in quanto tali, inevitabili?
Portando avanti il nostro ragionamento intorno all’esempio della ristorazione, a un certo punto un singolo ristorante si ritroverà più clienti di quanti il cuoco ne possa servire. Avrà bisogno di collaboratori e li troverà nei colleghi di minor talento che, non riuscendo a competere sul mercato, avranno dovuto chiudere le loro attività (si ripropone quindi la stessa dinamica che abbiamo visto poco fa parlando degli artigiani).
A questo punto il cuoco di successo dovrà trovare un accordo coi suoi collaboratori, ecco che si ripropone la dinamica del lavoro subordinato, questa volta però senza la dimensione ricattatoria che caratterizza la società come la conosciamo oggi.
Nell'attuale organizzazione sociale, infatti, il lavoratore subordinato se non lavora cade in povertà, per cui piuttosto che cadere in povertà preferirà accettare condizioni di lavoro poco vantaggiose ed è qui, esattamente in questo passaggio, che si producono le logiche di sfruttamento e “il dominio dell’uomo sull’uomo”.
In una società anarchica tutti i bisogni di base del cittadino sarebbero garantiti dalla collettività (non dallo Stato quindi, nè da un’autorità centrale, ma dal complesso di tutti i cittadini), per cui anche se il rapporto di lavoro rimane subordinato le condizioni in cui tale rapporto di lavoro viene contrattato garantiscono l'equità tra le parti che stanno contrattando.
Il singolo individuo apre un ristorante perchè vuole qualcosa in più rispetto allo standard minimo garantito dalla collettività, lavorando arriva a un punto in cui deve decidere se ciò che ha ottenuto è abbastanza oppure no e se decide di voler continuare a crescere avrà bisogno di assumere; le persone che si candideranno per quel posto di lavoro, anche loro lo faranno perchè desiderano qualcosa in più rispetto allo standard minimo garantito dalla collettività.
Per quanto il lavoro conservi la sua natura subordinata (per cui viene conservata un'organizzazione gerarchica dell'attività lavorativa) ciò che manca è il ricatto occupazionale: il lavoratore non è più costretto a lavorare perchè altrimenti muore di fame, accetta liberamente di svolgere un lavoro di tipo subordinato e altrettanto liberamente contratta col datore di lavoro le condizioni di lavoro, a partire dalla retribuzione.
A porre le basi per lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, quindi, non è la natura subordinata del lavoro in se ma il fatto che nel momento in cui le parti contrattano le condizioni del rapporto di lavoro non vi sono le condizioni per una contrattazione libera; un lavoratore che contratta le condizioni di lavoro partendo da una situazione in cui gli è già garantita una qualità della vita dignitosa è un lavoratore che non accetterà mai di sottomettersi a condizioni di lavoro degradanti.
Se questo non bastasse, in qualunque momento e per qualunque motivo il lavoratore potrà rassegnare le sue dimissioni con la sicurezza comunque di non perdere mai quello standard minimo che gli è garantito dalla collettività in termini di qualità della vita; tutto questo ragionamento è molto simile a quello che viene usato a sostegno di uno strumento come il reddito di cittadinanza, solo che in questo caso noi non stiamo immaginando di dare ai cittadini reddito a pioggia (per mezzo di un’autorità statale), stiamo invece postulando un lavoro di cittadinanza, grazie al quale tutti i cittadini si garantiscono, cooperando, più che un reddito minimo uno standard minimo in termini di qualità della vita.
Al netto delle regole riconosciute all'unanimità come valide da tutti i cittadini, vi è poi un sistema di regole, quindi, che emerge spontaneamente come risultante dei rapporti che i singoli individui intrattengono reciprocamente. Le norme riconosciute all'unanimità dai cittadini rappresenteranno il quadro di regole che farà da cornice a quella che possiamo definire "unità nazionale" (cioè il complesso di tutte quelle comunità che si riconoscono in determinati valori fondamentali che, per comodità, possiamo ricondurre a quelli sanciti dalla dichiarazione universale dei diritti umani), altre regole invece saranno quelle condivise all'interno delle singole comunità locali, che non devono essere necessariamente uguali per tutte le comunità.
In conclusione
Acclarato questo ecco che ogni pretesa di imporre aprioristicamente un certo modello che regoli la vita economica della società va a farsi benedire; se la collettività decide all'unanimità che una certa attività economica va esercitata collettivamente nessuno potrà impedirle di farlo, e dal momento che nessun individuo nella nostra società potrebbe sostenere che sia civile negare a qualcuno l'accesso alle cure, al cibo, all'acqua, all'energia elettrica, all'istruzione e a tutti quegli altri beni il cui libero accesso è imprescindibile per una qualità della vita dignitosa, ecco che ogni attività intorno a questi settori economici assumerà una dimensione collettiva, per cui le differenti comunità locali non solo vorranno controllarle pienamente ma anche autonomamente, rifiutando cioè di dipendere da un'autorità centrale, pubblica o privata che sia.
In questo contesto non scompare la libera iniziativa privata, nè il commercio tra privati sia a livello locale che a livello nazionale e internazionale; a regolare questo genere di commercio saranno quindi comunque le logiche di mercato, mentre gli accordi sottoscritti in maniera libera e indipendente tra le parti garantiranno che non si vengano a generare logiche di sfruttamento ed il rispetto reciproco di tutti i soggetti coinvolti (in ossequio al principio che "ognuno è abbastanza saggio per governarsi da se").
Arrivati a questo punto, quindi, appare chiaro che non ha alcun senso porre contrapposizioni di carattere ideologico per quel che concerne il modello economico da adottare in un'ipotetica società anarchica (o libertaria, se vogliamo tornare a usare questa parola come sinonimo); infatti una volta che si sono accettati i due presupposti logici del pensiero anarchico e cioè:
1) "ciascuno è abbastanza saggio da governarsi da solo"
2) "nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri"
la nuova organizzazione sociale emergerà naturalmente sulla base di quanto decideranno i singoli cittadini, finalmente messi in condizione di interagire tra loro in maniera realmente libera e in un contesto di vera uguaglianza reciproca.
Ecco spiegato perché, per concludere, nel mondo anarchico la corrente anarco-capitalista viene considerata una forma di degenerazione del pensiero anarchico originale: nell’ambito dell’anarco-capitalismo si rifiuta aprioristicamente la possibilità per la collettività (non per lo stato quindi, ma per il complesso di tutti i cittadini) di esercitare un controllo pieno e diretto intorno ad alcune attività economiche che sono imprescindibili per garantire a tutti una qualità della vita dignitosa.