Quando Matteo (mrk4m1) ha condiviso il mio primo articolo (“Si fa presto a dire anarchico…”) per Lettere Libertarie un utente ha chiesto qualcosa del tipo “ok, tutto molto bello, ma come diamine si fa?”
La cosa, ovviamente, non mi ha stupito perché ogni anarchico si è sentito porre questa domanda centinaia di volte nell’arco della propria vita.
Fintanto che si rimane nell’ambito della speculazione politico-filosofica l’idea di una società libera come quella prospettata dall’anarchismo non può che incontrare i favori praticamente di chiunque.
Quando però (giustamente e inevitabilmente) ci si inizia a porre il problema di come traslare queste idee nella realtà le cose sembrano farsi più complicate. Dico “sembrano” perché in realtà non lo sono, tuttavia siamo tutti così abituati all’organizzazione gerarchica e alla presenza di autorità centrali che regolano la nostra vita da reagire alla possibilità di un’organizzazione sociale differente con incredulità.
A ben vedere, però, gran parte della nostra vita avviene senza che vi sia un’autorità centrale a regolarla.
Se iniziamo a ragionare partendo dalla nostra vita di tutti i giorni ci rendiamo facilmente conto che, effettivamente, non v’è alcuna esigenza di un governo o di autorità centrali. Facciamo qualche piccolo esempio banale prima di addentrarci meglio nella questione.
Qualche esempio di autogoverno
Se affermassi che il campionato di calcio potrebbe benissimo giocarsi anche senza un arbitro a regolare il gioco chiunque mi sentisse finirebbe probabilmente col darmi del pazzo; eppure ogni giorno nel paese si giocano migliaia di partite senza arbitro, nelle quali sono direttamente i calciatori a regolare il gioco.
Si tratta, indubbiamente, di partite amatoriali, nelle quali non è in palio nulla, ciò nonostante, se ci pensate bene, le stesse dinamiche che permettono di giocare una partita di calcio amatoriale senza arbitro potrebbero funzionare benissimo anche in una partita di serie A; osservando bene le partite, infatti, vi renderete conto che quasi sempre in presenza di un fallo (e molto spesso persino dei fuorigioco) i calciatori si fermano spontaneamente, perché sono tutti consapevoli, prima ancora che l’arbitro fischi, che il gioco verrà interrotto.
È proprio questa dinamica che permette, nelle partite amatoriali, di giocare senza arbitro. I calciatori vedono il fallo o il fuorigioco esattamente come lo vede l’arbitro, la consapevolezza che senza un minimo di correttezza reciproca la partita non andrebbe avanti e occorrerebbe fermarsi ogni tre minuti a causa di diverbi infiniti porta tutti i calciatori, il cui obiettivo comune è continuare a giocare, a trovare spontaneamente un accordo e, persino quando questo accordo non c’è, si giunge a conclusioni del tipo:
“ok, questa punizione prenditela che non c’ho voglia di discutere, ma se ricapita un’azione del genere, te lo dico già ora, non è fallo”.
Incredibilmente, questo tipo di soluzioni, che sulla carta sembrano improponibili, sul campo di gioco, quando non c’è l’arbitro a regolare le cose, vengono adottate comunemente e funzionano a meraviglia.
Un esempio ancora migliore di quanto e come abitualmente regoliamo la nostra vita senza alcun bisogno di un’autorità centrale, lo ricaviamo ogni qual volta ci infiliamo in auto per andare da qualche parte. Qui la presenza di un’autorità centrale a regolare il traffico non solo è riconosciuta da tutti come inutile, ma è persino reputata dannosa, o meglio, se mi consentite una piccola nota di colore, una rottura di coglioni incommensurabile.
Quando si tratta di regolare il traffico, l’autorità è rappresentata dal vigile all’incrocio, che è l’incubo di ogni automobilista italiano.
Nel momento in cui questo losco figuro si presenta agli incroci delle nostre città, con la sua bella divisa di ordinanza, pronto a impartire ordini agli automobilisti, ecco che il traffico si fa in realtà immediatamente più lento e il suo scorrimento più farraginoso.
Se ci fermiamo a rifletterci bene ci rendiamo conto che a consentire il regolare scorrimento del traffico non è un’autorità centrale, ma l’accettazione unanime e condivisa, da parte di tutti gli automobilisti, del codice della strada, cioè delle regole che tutti noi accettiamo di seguire nel momento in cui ci mettiamo alla guida della nostra auto.
La cosa è talmente vera che anche quando l’autorità, invece che essere rappresentata da un vigile, è rappresentata da un semaforo, comunque finiamo per riscontrarne l’inutilità e la dannosità. Le rotonde, infatti, rendono il traffico più scorrevole di quanto non possa fare un semaforo il quale, a ben vedere, si comporta esattamente come fa l’autorità (cioè in maniera ottusa e ripetitiva), intimando all’automobilista di fermarsi quando è rosso o di proseguire quando è verde. Con le rotonde, la presenza di una regola comune e condivisa da tutti, si dimostra più adatta dei semafori a snellire le code.
Nonostante l’esistenza di norme ben precise, cioè del codice della strada, ognuno di noi è poi abituato a valutare di volta in volta quando sia il caso di derogare a quelle regole, al fine di consentire una migliore circolazione per tutti, come nel caso della cosiddetta “precedenza di cortesia”; non c’è un solo automobilista in Italia che ogni giorno non decida di rinunciare spontaneamente alla precedenza (che pure gli spetterebbe di diritto) per consentire a un’altra persona di attraversare un determinato incrocio, al fine di evitare la formazione di ingorghi e code.
Il “gigantismo” di Kohr
Questi due esempi ci servono per iniziare a calarci nell’ottica di idee che non solo le autorità centrali sono inutili, ma molto spesso si rivelano anche dannose.
Acclarato questo possiamo iniziare ad addentrarci meglio nel discorso e scoprire come i vari pensatori anarchici hanno tentato di rispondere alla domanda posta dal nostro amico su twitter, e cioè come diavolo si costruisce una società senza un’autorità centrale.
Ovviamente nell’arco di due secoli di storia i pensatori anarchici che si sono misurati con questa domanda sono tantissimi, oggi noi però ci concentreremo in particolare su due figure che hanno dato un contributo fondamentale al pensiero anarchico contemporaneo e cioè Leopold Kohr (economista, giurista e politologo statunitense nato nel 1909) e Murray Bookchin (anche lui americano, filosofo anarchico nato a New York nel 1921).
Leopold Kohr ci interessa non tanto perché risponda alla domanda su come si possa costruire una società senza un governo centrale (infatti non lo fa), ma perché col suo lavoro principale (Il crollo delle nazioni, 1957) ci spiega per quale motivo è necessario costruire una società senza un governo centrale e sul modello, successivamente postulato da Bookchin nel suo libro “From Urbanization to Cities” (pubblicato nel 1987), che prenderà il nome di “municipalismo libertario”.
Procediamo però con ordine e quindi, anche a livello meramente cronologico, dal lavoro di Kohr il quale si definiva, non a caso, un "anarchico filosofico".
Ciò che Kohr fa è riflettere su quali siano le cause che producono gran parte dei mali sociali che vediamo intorno a noi; lo fa partendo dall’osservazione del mondo naturale, della realtà quotidiana che ci circonda. In questo modo arriva a rendersi conto che, in natura, a produrre gran parte dei problemi è un fenomeno che possiamo definire “gigantismo”.
Una stella, afferma il filosofo, collassa su se stessa quando si espande oltre un determinato limite, il cancro non è altro che la proliferazione incontrollata di cellule tumorali. Tutti noi, restando nell’ambito della metafora oncologica, sviluppiamo continuamente cellule tumorali, tuttavia questo non rappresenta un problema fintanto che il numero di queste cellule non inizia ad aumentare in maniera incontrollata, arrivando a sviluppare una neoplasia.
Insomma, a conti fatti, ciò di cui Kohr si rende conto, molto banalmente, è che, come recita un famoso adagio popolare, “il troppo stroppia”.
A livello politico trasla poi questi concetti sulla società e sull’economia, arrivando a dimostrare come ciò che definisce "culto della grandezza" produca la totalità dei problemi sociali, politici ed economici della contemporaneità ed arrivando così ad elaborare una teoria economico-politica delle dimensioni.
Non solo, quindi, più uno Stato è grande più la vita dei suoi cittadini sarà interessata da povertà e miseria, ma anche a livello geopolitico sono proprio gli stati più grandi quelli che si rivelano immancabilmente più propensi alla guerra e alla lotta per il predominio su tutti gli altri.
La soluzione ai problemi che caratterizzano la contemporaneità non può che passare per lo scioglimento degli stati-nazione al fine di rimettere al centro della vita politica ed economica le piccole comunità locali, federate tra loro intorno a principi di solidarietà reciproca e cooperazione, secondo quello che, non a caso, rappresenta il fondamento del pensiero anarchico sin dalle sue origini.
Fino a questo momento la critica anarchica all’organizzazione gerarchica della società era rimasta bloccata a considerazioni di carattere etico (nessun criterio soddisfacente può porre un uomo, o un gruppo di uomini, al comando di tutti gli altri).
Grazie al lavoro di Kohr, invece, assume una dimensione più strettamente scientifica; è proprio grazie alla sua opera più importante (Il crollo delle nazioni) che noi possiamo oggi affermare che la guerra è l’esito inevitabile della nascita delle grandi potenze globali, così come i monopoli sono l’esito inevitabile della crescita oltre determinati limiti dell’influenza di una determinata azienda in un determinato mercato e come la devastazione ambientale è l’inevitabile conseguenza del concetto di crescita economica perenne e così via per qualunque tipo di problema sociale, politico o economico decidiamo di indagare.
In due secoli di storia del pensiero anarchico tutti i vari pensatori che si sono succeduti sono giunti alle medesime conclusioni, nonostante partissero spesso da orientamenti ideologici differenti, e cioè che l’unica dimensione che permette un controllo effettivo dei cittadini sull’organizzazione sociale è quella locale.
Il pensiero di Bookchin e il municipalismo libertario
A dare però spessore filosofico e rigore scientifico a questa convinzione sarà Murray Bookchin a partire dalla seconda metà del ‘900.
Nonostante l’importanza di mettere al centro della vita politico-economica di un paese le piccole comunità fosse già radicata nella cultura socialista sin dall’ottocento (tanto da provocare la rivolta di Kronstadt, repressa nel sangue dai comunisti russi, cosa che poi genererà la frattura insanabile tra anarchici e comunisti, cioè tra coloro che declinano il socialismo in chiave libertaria e coloro che lo declinano invece in chiave autoritaria), a portare la questione fuori dall’ambito meramente ideologico sarà proprio Bookchin.
Il contributo di Bookchin è particolarmente importante perché per la prima volta non si limita alla critica dell’organizzazione sociale così come la conosciamo oggi e del modello economico capitalista, ma muove le sue riflessioni partendo da una critica a quelle che sono le principali correnti del pensiero di sinistra, per cui marxismo, socialismo e si, anche anarchismo.
In un certo senso possiamo definire il lavoro dell’americano come una critica dell’ortodossia, per questo le sue riflessioni rappresentano una novità assoluta; per la prima volta, in altre parole, non assistiamo alla rissa dialettica per l’affermazione del predominio ideologico, ma osserviamo il tentativo di produrre una sintesi capace di ricondurre ad unità tutte le varie correnti del pensiero di sinistra.
All’ortodossia marxista Bookchin rimprovera l’incapacità di sganciarsi da quella che è l’analisi dei problemi politico-economici visti dalla prospettiva della lotta di classe per approdare a un pensiero più contemporaneo; non è più, in altre parole, solo una questione di classi sociali ma è anche una questione di orientamenti sessuali, di appartenenze etniche e religiose.
Non per niente Bookchin è americano, gode quindi di una posizione di privilegio per osservare la nascita e lo sviluppo di queste tematiche che, invece, in Europa inizieranno a svilupparsi solo successivamente.
La questione etnica, o di genere, ci ricorda Bookchin, non è inquadrabile nell’ambito del conflitto tra classi tipico del pensiero marxista, le rivendicazioni di un afroamericano ricco non sono diverse da quelle di un afroamericano povero, c’è cioè sia una questione di classe che una questione etnica e la questione etnica travalica le classi.
Lo stesso possiamo affermare, ovviamente, per le problematiche di genere, per quel che concerne le rivendicazioni del mondo LGBT e persino per quel che concerne la libertà di culto (innegabile, ad esempio, che esista una “questione islamica” in occidente e che i diritti dei musulmani tanto in Europa quanto negli USA siano spesso sistematicamente calpestati).
Bookchin, quindi, evidenzia come si stessero sviluppando nuove e complesse sfumature di status e interessi personali, impossibili da inquadrare rimanendo perfettamente aderenti al pensiero marxista; le classi sociali identificate da Marx, in altre parole, sono inadeguate alla contemporaneità.
Per quanto riguarda, invece, la critica al pensiero socialista Bookchin rimprovera l’incapacità di svincolare il concetto di stato da quello di governo, in questo senso non troviamo nulla di particolarmente originale nella sua opera, dal momento che non fa altro che recuperare la principale obiezione anarchica avanzata a chi declina il socialismo in chiave autoritaria e iperstatalista.
Tuttavia, è proprio questo tipo di critica che ci permette di collocare Bookchin nell’ambito dei pensatori anarchici. Ben più preziosa, invece, è la critica che l’americano muove proprio all’anarchismo, pur facendone parte (che ci dimostra anche la sua grande onestà intellettuale).
Essendo statunitense, Bookchin gode di un punto di vista privilegiato che gli permette di vedere in anticipo come il pensiero anarchico originale stia prestando il fianco a una serie di processi degenerativi, che sono proprio ciò che porterà alla nascita dell’anarco-capitalismo.
Sin dalla seconda metà del ‘900, infatti, Bookchin vede, con grande lungimiranza, germogliare i semi che porteranno successivamente (nel 2009) alla nascita del Tea Party americano, cioè il braccio politico del pensiero anarco-capitalista.
La critica all’ortodossia anarchica evidenzia come le rigidità individualistiche, profondamente insite nel pensiero libertario sin dalla sua nascita, si attaglino particolarmente bene alle esigenze di chi, desiderando promuovere un’organizzazione sociale profondamente liberista, intenda strumentalizzare l’individualismo per promuovere una società in cui è esclusa a priori ogni forma di azione collettiva e in cui tutto deve autoregolarsi, in ossequio ai dettami del pensiero neoliberista (che è esso stesso una degenerazione del pensiero originale di Adam Smith, come abbiamo visto nel mio primo articolo).
Ultimo ma non ultimo, Bookchin pone la dimensione locale - il municipalismo libertario - come fondamentale per dare sostenibilità ambientale all’esistenza dell’essere umano sul pianeta, cosa che lo rende tra i primissimi al mondo ad aver dato alla questione ecologica una dimensione più spiccatamente politica.
Muovendo da queste critiche al pensiero di sinistra Bookchin sviluppa il suo concetto di municipalismo libertario in cui, appunto, quelle che prima erano le prerogative di uno stato centrale passano ora alla comunità locale (che può quindi dispiegare l’azione collettiva e dare un minimo di progettualità alla sua azione politica ed economica).
Bookchin ridimensiona la divisione tra classi rigidamente marxista riconoscendo che vi sono interessi (di genere, etnico, religioso, etc) che travalicano la dicotomia marxista “proletari Vs capitalisti” e, soprattutto, affida alla comunità locale l’obiettivo di procedere alla riambientalizzazione (così come la chiamiamo oggi), e cioè alla ricostruzione dell’ecosistema naturale la cui devastazione è causa diretta di tre secoli di capitalismo selvaggio.
Arrivati a questo punto, quindi, abbiamo compreso sia perché è necessario abbandonare l’organizzazione sociale costruita intorno agli stati nazione (Kohr) sia perché il solo modo sensato di farlo sia attraverso il municipalismo libertario postulato da Bookchin, abbiamo cioè gli strumenti e le nozioni che ci servono per rispondere alla domanda del nostro amico su twitter, con cui abbiamo aperto questo articolo.
Come realizzare il municipalismo libertario
Passando agli aspetti più strettamente “operativi” possiamo constatare che esistono due modi possibili per realizzare il municipalismo libertario immaginato da Bookchin:
sfruttando gli strumenti democratici a nostra disposizione, per cui con l’azione politica
attraverso un’azione più strettamente rivoluzionaria (ma non armata)
Mentre il primo approccio si rivela più facile, ma anche pernicioso, il secondo ci mette su una strada più faticosa da percorrere ma che offre migliori garanzie di successo.
Per quanto riguarda il primo metodo, molto banalmente, si tratta di dare vita a un progetto politico che, dopo aver vinto la contesa elettorale, ponga in essere tutte quelle azioni necessarie a dare vita alla nuova forma di organizzazione sociale per cui, sostanzialmente, cedendo quote via via superiori di sovranità dallo stato alle comunità locali.
Tutte le infrastrutture indispensabili a consentire questo passaggio, infatti, sono già state costruite e sono già a nostra disposizione: l’infrastruttura sanitaria, le scuole, le strade, la rete elettrica e quella delle telecomunicazioni, i terreni agricoli, etc sono già tutti li, si tratta solo di affidarne la gestione e il governo direttamente ai cittadini che fanno parte delle diverse comunità locali.
Questo tipo di approccio, però, come detto, è pernicioso e incontrerebbe sicuramente l’opposizione di qualunque anarchico degno di questo nome perché, come due secoli di storia dimostrano, quando una forza politica arriva a governare un paese ci prende gusto e di schiodare da quella condizione (e dai privilegi che comporta) non ne vorrà sapere.
È difficile, se non utopistico, pensare che qualcuno, dopo aver conquistato una posizione di potere, smantelli la struttura da cui ricava quel potere, è cioè utopistico credere che una forza politica decida, una volta assunto il controllo di un’autorità centrale, di procedere allo smantellamento di quella stessa autorità centrale su cui ha finalmente acquisito il predominio.
La seconda soluzione, invece, più difficile da realizzare, ci offre maggiori garanzie di riuscita. I cittadini devono costruire all’interno del sistema attuale le nuove infrastrutture che permetteranno, in futuro, di realizzare il nostro nuovo modello di organizzazione sociale, cioè il municipalismo libertario di Bookchin.
La collettività, a livello locale, dovrà quindi auto-tassarsi per finanziare la costruzione di nuove scuole, ospedali, reti elettriche e di comunicazione, sulle quali eserciterà un controllo diretto e assoluto e i cui titoli di proprietà saranno distribuiti equamente tra tutti i cittadini. Nel momento in cui tutte le infrastrutture e gli strumenti indispensabili per realizzare l’autogoverno del popolo per il popolo su base locale saranno state realizzate (e solo allora), la collettività procederà (da qui la prospettiva rivoluzionaria) a produrre il collasso dello stato nazione, esautorando e privando di ogni potere l’autorità centrale semplicemente smettendo di pagare le tasse.
Lo stato, così come lo conosciamo oggi, non dispone di risorse proprie, ma le ricava attraverso la tassazione; privato delle sue entrate, quindi, non potrà che finire per collassare su se stesso nel giro di breve tempo; a questo punto le comunità locali proclameranno la propria indipendenza dallo stato centrale ed emergeranno come nuovi soggetti politici, autonomi e indipendenti.
Dalla sintesi di queste due differenti strategie, invece, viene fuori quella che a mio parere è la soluzione migliore; assumendo il controllo delle amministrazioni locali (la nostra prima opzione, quella, per così dire, democratica) i cittadini ricavano la possibilità di raccogliere più facilmente le risorse economiche necessarie a iniziare il nostro percorso di radicale riorganizzazione della società.
I cittadini, riunitisi intorno a un obiettivo politico comune, esprimono il sindaco nei rispettivi comuni e l’attività di controllo sull’attività della politica, avvenendo a livello locale, diventa molto più semplice; esercitare un controllo pieno e diretto, in altre parole, sul governo cittadino (cioè sull’amministrazione locale) per i cittadini è relativamente semplice, mentre questo tipo di attività resta sostanzialmente impossibile da fare nei confronti di un governo centrale.
Grazie al controllo diretto del partito (locale) sull’amministrazione comunale i cittadini non solo potranno accedere ai fondi (statali o comunitari) necessari a dotarsi di tutta la nuova infrastruttura pubblica (e siamo quindi alla seconda strategia, quella che abbiamo definito rivoluzionaria) ma ridurranno anche l’esigenza di auto-tassarsi per finanziarla e ricaveranno tutto il supporto necessario (legale, tecnico, burocratico, etc) per realizzare quelle opere. L’obiettivo finale rimarrà comunque e sempre “staccare la spina” allo stato centrale (per cui appunto rimane la prospettiva rivoluzionaria) ma i tempi necessari a centrare quest’obiettivo risulteranno notevolmente ridotti.
Per quanto riguarda, invece e per concludere, gli aspetti più prettamente tecnici e organizzativi di un progetto politico finalizzato a realizzare concretamente il municipalismo libertario immaginato da Bookchin consiglio di leggere questo prossimo articolo.